
La scoperta
Scopro che la morte di Vincent van Gogh è poco chiara. Quello che sapevo – si è ucciso nei campi in preda a un delirio – non è poi così evidente e accettato da tutti. Ci sono molti punti oscuri. Lo scopro ascoltando un podcast di Bruno Giordano Guerri. Quello che il podcast mi ricorda è che domenica 27 luglio 1890, nel primo pomeriggio, Van Gogh è andato nei campi a dipingere e lì si è sparato. Guerri, però, ha aggiunto altri particolari che non conoscevo: Van Gogh non è morto subito, sul colpo, ma è solo svenuto. La sera si è rialzato, è tornato alla locanda dove alloggiava, si è sdraiato a letto, è stato raggiunto dei medici, i quali hanno decretato che non si poteva fare nulla; e tutti hanno aspettato, medici e Theo – arrivato la mattina dopo – compresi, che Vincent morisse. Cosa che accadde la notte del 29 luglio, all’una e trenta del mattino. Guerri conclude: sembra che Van Gogh si sia sparato al fianco sinistro, che la pistola non sia mai stata ritrovata e che forse non si sia sparato nei campi, ma dietro le case di qualcuno, in un letamaio. Insomma, non si capisce bene cosa sia successo.
Voglio saperne di più, non so perché, ma voglio saperne di più. E la cosa sorprende per primo me. Van Gogh non mi è mai nemmeno piaciuto. Quando l’ho studiato all’università, Van Gogh mi è sembrato scontato, banale, già visto. Forse per via della sua fama, per i suoi quadri onnipresenti, alla fine non lo si apprezza più. Non che lui mi avesse mai particolarmente attirato: la sua follia, i suoi scatti d’ira, l’orecchio tagliato, il manicomio, tutta roba da storia di appendice, feuilleton da vecchio Ottocento. E quindi non so spiegare perché adesso ho deciso di scoprire qualcosa di più sulla sua morte.
Ho subito cercato informazioni su Google: la morte di Van Gogh. E ho trovato che molti altri se ne sono occupati. C’è anche il trafiletto di giornale originale de L’Écho pontoisien, un giornale locale di Pontoise, cittadina vicina ad Auvers-sur-Oise, dove Van Gogh viveva in quel periodo, a pochi chilometri da Parigi. Il trafiletto, datato 7 agosto 1890, riporta la seguente brevissima nota (tradotta da me e Google Translator):
”Domenica 27 luglio, uno di nome Van Gogh, trentasettenne, suddito olandese, pittore, di passaggio ad Auvers, si è sparato un colpo di pistola nei campi, ed essendo solo ferito, è rientrato nella sua camera d’albergo dove è morto due giorni dopo”.
Pontoise, all’epoca, aveva un ospedale dove Van Gogh poteva essere portato, perché nessuno l’ha fatto? Parigi era, allora, a un’ora di treno, perché nessuno l’ha portato in ospedale nella capitale?
I dubbi riguardano innanzitutto il fatto in sé. Leggo qua e là, un po’ alla rinfusa, lo ammetto, ma non è chiaro dove si sia sparato Van Gogh. Il trafiletto dice nei campi, ma Guerri riporta la versione secondo la quale si è sparato dietro la casa di qualcuno, in un letamaio. Infatti, la signora Liberge, interrogata dopo anni, ricorda che il padre, che conosceva Van Gogh, affermò che non si era sparato dove si diceva (nei campi), ma in rue Boucher (dalla parte opposta dei campi, ho controllato su Street View) dove era entrato in un cortile di una piccola fattoria, si era nascosto in un letamaio e lì si era sparato. Ma lui come ha fatto a saperlo? L’ha visto? Ma come ha potuto vederlo se era nascosto in un letamaio? Ha sentito lo sparo? Ma allora perché non è intervenuto? Sembra che Van Gogh sia rimasto ore disteso in quel letamaio prima di rientrate, la sera, alla locanda dei Ravoux, dove alloggiava. Il signor Liberge dov’era?
La testimonianza della signora Liberge sembra poi ripresa da Emile Bernard, amico di Van Gogh che, quattro giorni dopo la morte del pittore, scrive all’amico Aurier, un critico che per primo aveva apprezzato il lavoro di Vincent:
“Domenica sera, è andato nella campagna di Auvers, ha appoggiato il cavalletto ad un covone, ed è andato a spararsi un colpo dietro al castello. Sotto la violenza dello choc – la pallottola aveva sfiorato il cuore – è caduto, ma si è tirato su tre volte di seguito, per rientrare alla locanda dove aveva una stanza…”.
Come faceva Bernard a sapere tanti dettagli? Nessuno sembra aver mai parlato, tantomeno Vincent, di essersi alzato tre volte, di seguito, per di più. Insomma, le dicerie sulla fine di Van Gogh sembrano moltiplicarsi, complicarsi, arricchirsi, contraddirsi, perdersi, cosicché è difficile capirci qualcosa, distinguere ciò che è possibile da ciò che è vero, il plausibile dal verosimile. La cosa m’interessa sempre di più.
Ne ho parlato con mia moglie. Mi incoraggia a continuare. Come sempre. Lei mi incoraggia sempre quando mi imbatto in cose che mi attraggono. Poi le ho detto che vorrei scriverci sopra qualcosa e allora lei mi dice che è una buona idea. Dice sempre che ho delle buone idee. Che devo fare questo nella vita, scrivere delle mie buone idee. Ma io non ci credo. Non credo di avere buone idee né di essere capace di scriverne. Ci vuole ben altro spessore del mio per fare, dell’avere buone idee, un mestiere. Io non ce l’ho, quello spessore. E poi lo fanno in troppi. Sono insofferente a tutto ciò che è comune, diffuso, condiviso. È lo stesso motivo per cui Van Gogh non mi piace. Troppo parlato, visto, scritto. E poi non ho la costanza. Mi perdo. Ad un certo punto perdo entusiasmo e non mi pare che abbia senso continuare. Così non si arriva mai da nessuna parte. E io non arrivo da nessuna parte, infatti. Anche tutto questo non finirà. Mi pare che non serva a niente.
A che cosa serve vivere? chiede lei sarcastica. L’idea che le cose debbano servire a qualcosa mi ossessiona e mi fa male, penso io.
A cosa serve danzare, fare uno spettacolo di danza, che non rimane e non viene nemmeno capito? dice lei, e sento anche che è rammaricata, dolorosamente consapevole che non sono molti quelli che apprezzano lo sforzo che fanno lei e i suoi colleghi ballerini. Già, infatti.
Lo so che anche per te è difficile accettarlo, dice. Già, anch’io sono figlio di questa visione monoteistica della produttività. Le cose devono servire. Tutto deve avere un fine, un obiettivo, un senso e soprattutto essere utile. Da qui, lo sento, arrivare a che le persone devono servire il passo è breve. Mi pare, ora che lo scrivo, che questa mentalità sia quella dello schiavo. Anche il padrone è uno schiavo. Chiunque sia soggetto a questo dio è uno schiavo. Quando tutto deve essere utile, servire a qualcosa, cosa farne di tanta parte della nostra vita? Nessuna meraviglia che ci si senta alienati in una società così impostata. Che fare della bellezza, del pensiero, del pensare, del divagare, del sognare, del sentire? Cosa farne di giornate luminose e, come ora, di un vento forte che sferza il viso e ti lascia un sapore pulito? Cosa fare di quell’allenarsi, preparare, combattere, certe volte, per fare uno spettacolo che poi non sempre è compreso, se non proprio apprezzato? A che pro? A che pro l’arte, quindi? Già, a che pro? In mente mi risuonano antichi strali contro tutto ciò che non è utile. Non sono convinto che riuscirò ad andare avanti.
Ammirazione
Io ammiro mia moglie da quando la conosco. L’ammiro per la forza, la determinazione, l’intelligenza, la memoria, per la velocità con cui capisce le cose. L’ammiro per il fatto che sa risolvere le equazioni di terzo grado e un giorno mi ha spiegato la filosofia di Jacques Deridda. L’ammiro perché se ne frega del giudizio di tutti. Fa spettacoli ed è disinteressata al giudizio sugli spettacoli. Li vuole solo realizzare, tutto il resto le è indifferente. Lo fa per sé e per chi può coglierlo. L’ammiro per questo e per la sovrana indifferenza verso le cose del mondo: non legge giornali, non s’interessa della cronaca, della politica, della società. Sa molte cose senza che io capisca come faccia a saperle, visto che non le ho mai visto sfogliare un giornale o guardare la tv. È un essere misterioso e profondo, e come tutte le cose profonde e misteriose nasconde molto di più di quanto si possa vedere. Io ammiro mia moglie e quest’ammirazione mi piace. Ne ho bisogno. Non mi basta amare, devo ammirare. Così come non mi basta essere amato, voglio essere ammirato. L’ammirazione è un sentimento molto particolare, definito come atteggiamento assorto di meraviglia di fronte a qualcosa di bello e affascinante. Pare che l’ammirazione sia necessaria per sviluppare un apprendimento felice, utile. Le persone che ammiriamo ci permettono di provare una emozione elettrizzante. Il contrario dell’ammirazione è l’invidia: il confronto con gli altri, in questo caso, non è motivante, ma frustrante. L’ammirazione, come l’invidia, decreta una distanza. Il soggetto ammirato è un soggetto distante. È così. Mia moglie è distante. Tutti ammirano Van Gogh. Tutti lo amano, lo adorano, lo venerano. Sono sommerso dall’abbondanza, bloccato, impietrito dalla quantità di testi, articoli, pagine, video, film, podcast e fumetti e dio solo sa che altro è stato scritto, disegnato, detto o filmato su e per Van Gogh. Sto contraddicendo ogni mio comportamento, ogni mia cellula che si è tenuta alla larga, per
anni, da ogni fenomeno di moda. Se c’è un fenomeno di moda totale, globale, inarrestabile, che raccoglie in ogni modo e comunque consensi unanimi, quello è sicuramente Vincent van Gogh. Nemmeno i Beatles reggono al confronto. La domanda sorge spontanea: perché Van Gogh piace così tanto? Ho pensato questo:
1. La storia di Van Gogh è la storia di un uomo rifiutato, un artista negletto, che muore in preda a un delirio mentale e, così, sollecita tutta la nostra pietà, la nostra commiserazione più profonda. Pochi lo conoscono, peraltro – chi ha veramente letto le sue magnifiche lettere? – se non per la sua sfortunata vita, per la sua malattia misconosciuta, per la sua fine tragica. La storia di Van Gogh è una tragedia classica che vorremmo vedere redenta. Noi che lo amiamo siamo la sua redenzione. Noi siamo coloro che riconoscono Van Gogh e in questo gesto personale e collettivo ci ritroviamo e ci riconosciamo come coloro che riconoscono Van Gogh contro tutti quelli che nel passato non l’hanno fatto. In questo sentirci riconoscenti e insieme coloro che devono essere riconosciuti, tutti noi sentiamo una forma di sollievo e di comprensione. In fondo, la storia di Van Gogh ci dice che c’è una giustizia per tutti, che ciò che siamo, prima o poi, verrà riconosciuto. Perché la storia che ci raccontiamo, ognuno di noi, è la storia di qualcuno che prima o poi dovrà essere riconosciuto per quella brava persona che pensa di essere sempre stata. Nella storia di Van Gogh, ognuno salva se stesso dal proprio fallimento. (continua)
Perché Theo non fa nulla?
Theo non fa nulla. Nessuno fa nulla. Fin dall’inizio è stato questo comportamento ad attrarre la mia attenzione in tutta questa storia. Quella resa incondizionata e subitanea. Quella decisione di non agire, quella presa d’atto, semplice e supina, che nulla era possibile fare.
Innanzitutto, mi aveva stupito la scelta del dott. Gachet. Ora so che può non essere stata una pura e semplice scelta medica. È vero che accanto aveva il dott. Mazery, il quale ha avallato o si è mostrato concorde sulla diagnosi di Gachet. Perché? Sudditanza? Priorità medica di Gachet su Van Gogh? Mazery non ha osato? O semplicemente non c’era nulla da opinare? C’era poi Gustave Ravoux, ma anche lui forse aveva da guadagnare a farla finita lì. Poi l’altro olandese, Anton Hirschig, tra gli altri, che forse poteva dire qualcosa. Non ha fatto nulla. E poi c’era Theo. E anche lui non ha fatto nulla. E infine c’è Vincent. Il quale, forse per salvare un povero ragazzo, si è lasciato andare. Forse. È bello pensare che Vincent si sia sacrificato per lui, per loro.
A me pare comunque un comportamento che deve avere una giustificazione che non può limitarsi al dato fisiologico puro e semplice. Come potevano decidere che era inoperabile? Nel 1880, Jules-Émile Péan aveva già svolto decine di operazioni chirurgiche più complesse di quella che forse si richiedeva su Van Gogh. Anche se l’operazione era rischiosa – e sicuramente lo era – che cosa avrebbe perso a farsi operare? Comunque, di fatto, nessuno provò a fare nulla. Forse sto seguendo una falsa pista, sto dando di matto su una cosa del tutto inutile. Evidentemente la ferita era tale da non lasciare alcuna speranza. Dev’essere stato così. Per forza. Ma anche così, io non so rassegnarmi a quel non fare nulla, non tentare nulla, non provare qualcosa. Non agire, non fare: un comportamento difficile da considerare, pensare, accettare. Decidere di non fare nulla. Aspettare di morire. Aspettare che la fine arrivi, di buon grado, matematica e conseguente. Oppure prendere atto di non poter fare nulla. Vedere mia moglie in questo stato e non poter far nulla. Non poter condividere il dolore. Non poterlo diminuire e nemmeno comprendere. Non poter cambiare la situazione. Non essere riuscito, sinora, non dico a migliorare la sua condizione, ma ad aiutarla ad affrontarla in modo diverso. Niente. Inutile. Contemplo, non domo, la mia inettitudine in quella di Theo, in quella di tutti gli altri, in quella del Gachet che non ha fatto nulla nemmeno per la moglie. Forse è questo il vero motivo per cui mi sto occupando inutilmente di un caso così poco interessante, ma per me diventato vitale, ogni giorno di più. Fare qualcosa: dovevano fare qualcosa. Dovevano salvare quell’uomo. Non potevano lasciarlo andare via così. Forse è proprio vero che il tempo non esiste e ciò che stiamo vivendo è solo un eterno tempo presente dove tutto è qui, ora. Senza che io lo sospettassi quando tutto questo affanno su Van Gogh è iniziato, quella storia era dentro la mia storia. Mi viene in mente quella frase di Jules Verne e, adeguandola al mio caso, penso: quella strada intrapresa sulle orme di Van Gogh non aveva alcuna destinazione, ma solo un destino.
Anton aveva un segreto
La rivincita di Anton Hirschig sul genio di Van Gogh è stato conservare un segreto per anni. Anton sapeva e sapeva di essere il solo a sapere. Peccato che non abbia visto tutto quello che è seguito. Le idee, le ipotesi, le illazioni che si sono fatte sulla sua morte. E poi Van Gogh che diventa un genio, un’icona mondiale e nello stesso tempo un essere sconosciuto, celato da tanta fama. E lui, Anton, con il suo segreto dentro, con il suo sapere e vedere che quello che Van Gogh temeva si era poi realizzato, con suo grande disgusto. Anton aveva un segreto che è rimasto custodito per anni in un libro, il suo libro preferito. E poi questo libro è stato regalato, senza sapere cosa contenesse, perché a volte abbiamo la ricchezza tra le mani e non lo sappiamo. E questo libro ha fatto un percorso strano e infine è tornato a Parigi, si è accasato tra altri libri, senza avere nulla da dire. Il ricordo che l’aveva accompagnato è scomparso con colui che ricordava. L’oggetto, sopravvissuto a tutto, ha perso ogni connotazione e soltanto prima di essere gettato, dopo essere stato smosso o spostato, ha fatto cadere il suo segreto a terra. Qualcuno l’ha raccolto e, senza capire, ha iniziato a leggere. Qualcuno che forse ha continuato a conservare il segreto. Perché è bello sapere di sapere una cosa che sai solo tu.
Sberleffo
E poi parliamo in cucina, mentre lei cucina. Cucina con attenzione, ma seguendo percorsi strani. Le ricette, per lei, sono sentieri impervi che percorre quasi sempre per la prima volta e una sola volta. La nostra cucina ha tutto, come ho avuto modo di dire. È la cucina di uno chef, è grande, piena di ripiani dove lavorare e lei passa dall’uno all’altro mentre taglia, ammolla, impentola, inforna, surgela, scongela. E lo fa con noncuranza, levità, rapidità. È grossolana, non pensiate altro. È priva di quell’ossessione della precisione che invece ha in altri contesti. Imbroglia, sperimenta, getta su, mischia cibi, ingredienti, sostanze. Conosce cibi che molti di noi non hanno mai sentito nominare. Cibi cinesi, giapponesi, sudamericani, indios; cibi che ora cominciano a essere presenti sui ripiani di un supermercato alla moda lei li compra online da anni. Io non le sto dietro. Ma la osservo, come si osserva un’anima rara. Perché lei è questo, lo è sempre stata: una anima rara. E adesso che sono qui a leggere, al tavolo della cucina e mi godo la palude domenicale, l’assenza di pressione, il silenzio della strada, le attività frenetiche che refluiscono via; adesso che leggo Romain Gary, un vecchio compagno, una voce amica che mi accompagna da tanti anni e di cui parlerò in un altro momento; adesso la guardo e la amo. Io non so come spiegare. In questo sentimento c’è il candore, la semplicità, l’innocenza di un gesto puro. La amo e basta. E a tutti quelli che mi dicono che devo andarmene, che lei se lo merita, che è egoista, che è fuori di testa, che il suo male mi contagerà; a tutti quelli che m’incitano alla fuga perché questo è lo sport nazionale nelle relazioni umane; a tutti questi io dico che non posso. Forse vorrei anche, capisco benissimo che per certi versi hanno una ragione, che mi sto facendo del male; ma io semplicemente non posso. E mi dico che questa creatura sgualcita e affogata nel dolore si merita il mio amore. Non perché è buona, cara, generosa, amorevole. Non per quello che fa o non fa a me. Non è un ragionamento economico il mio, che il cuore di certe persone a volte sembra un promotore finanziario, un diligente impiegato di banca. (Qui dovrei parlare del libro di Antony Giddens sui rapporti come contratti, quello sulla trasformazione dell’intimità, ma forse anche no). No. È perché lei è così. E proprio perché non lo farebbe nessuno, per me, snob e minoritario come sono, lei è da amare. Per quella sua inettitudine a tutto ciò che le è contemporaneo, a ciò che è umano.