Non tutto il bene viene per…

C’è un detto equivalente, al positivo, di non tutto il male viene per nuocere? Non sempre il bene fa bene, e il libro di Bacà parte da questo presupposto. Ho chiesto a ChatGPT di preparare una recensione per questo libro di Fabio Bacà, ma almeno nelle tre versioni che ho provato a farle fare, diceva cose inappropriate. Un libro difficile da catalogare? Scritto in modo molto particolare, unico, direi, a volte molto contorto, ma sempre divertente, brillante, ironico, è un libro che parte dalla situazione per cui un inglese (perché un inglese? Perché è ambientato a Londra?) ad un certo punto avverte di avere la fortuna dalla sua parte in un modo statisticamente (e lui è uno statistico) inaccettabile. E la cosa gli pare comunque inaccettabile: perché tanta fortuna? E già? Se le cose girano tutte bene c’è qualcosa che non va… E cosa succede allora? Pur non essendo minimamente un thriller tiene avvinghiato il lettore che vuol capire cosa sta accadendo e dove si andrà a parare. In che modo si ristabilirà l’equilibrio? Perché comunque occorre trovare un equilibrio. È pur sempre una questione statistica. Il finale mi ha molto sorpreso.

La scienza come romanzo…

Da sempre mi attirano i libri che non sanno stare dentro un confine di genere, soprattutto tra narrativa e saggio. Forse perché anche io, scrivendo Dissoluzioni, mi sono nutrito di testi così: penso a HHhH di Laurent Binet (di cui ho già scritto qui), a L’avversario e a gran parte dell’opera di Emmanuel Carrère, ma anche a Sebald, a Ernaux e ad altri ancora. Sono libri che raccontano cose reali con gli strumenti della finzione, o che inventano per spiegare meglio ciò che è realmente accaduto.

Il libro di Benjamin Labatut, Quando abbiamo smesso di comprendere il mondo, appartiene pienamente a questa categoria di oggetti ibridi, e lo fa con un’intensità particolare. Parla di scienza, di scoperte, di riflessioni matematiche e fisiche, ma lo fa in una forma che destabilizza: non sai mai fino in fondo se ciò che leggi sia reale, ispirato al reale o completamente inventato. Eppure funziona, ed è proprio questo continuo slittamento a renderlo affascinante e intrigante.

Quello che mi conquista è la possibilità di leggere biografie e teorie matematiche come fossero parabole, racconti mitici, metafore della condizione umana. Non è la trama a trascinarmi, ma l’oscillazione costante tra sapere e immaginazione, tra cronaca e invenzione.

Labatut, giovane scrittore cileno, mostra come oggi non si debba (o forse non si possa più) scegliere un unico registro: la scrittura può essere insieme invenzione, documento, riflessione critica e poesia. Certo, in questo processo i confini della realtà si sfaldano, come accade in Dissoluzioni: la verità, l’autenticità, la coerenza morale vengono messe in discussione. Ma proprio da questa frattura nascono possibilità nuove, letterarie e conoscitive, per affrontare la complessità del mondo.

Puoi trovare il libro qui

L’imbarazzo, frammenti sparsi


L’imbarazzo di non essersene andato a studiare e vivere all’estero. A. prova l’imbarazzo di colui che non è emigrato per fare fortuna, per trovare una posizione, realizzare un sogno. Probabilmente non è uno dei migliori, dei più svegli o dei più intelligenti, si dice, un po’ contrito. Sarebbe dovuto andare in America, o in Inghilterra, seguire il flusso, trovare un bel lavoro, essere avanti. Avrebbe dovuto adottare un’altra lingua, altre abitudini, sentirsi meglio, più riconosciuto, nel posto giusto per realizzare il proprio talento. Così avrebbe potuto provare nostalgia, rimpiangere, pensare che comunque era meglio tenersi alla lontana da un paese mediocre, che si percepisce grandioso, dove si vive male e lo si sopporta raccontandosi di come si mangia bene. Avrebbe guardato di tanto in tanto qualche programma, così, per sapere cosa succedeva, e aggiornarsi con ciò che poteva, ma con quella passione fredda e un po’ distante dell’entomologo imberbe che si china sulla blatta. E poi tornare con un vago accento, un senso di estraneità perturbante. Circondato dall’aurea del realizzato, arrivato fino a qualche cima, riverito. Soprattutto da un popolo di (falsi) esterofili. Se se ne fosse andato avrebbe potuto accarezzare l’idea di ritornare definitivamente e scegliere davvero il luogo in cui è nato. A. assapora la gioia del conosciuto e quella del perso, del ritrovato. Avrebbe proprio dovuto andarsene per apprezzare dove è rimasto.

Tratto da L’imbarazzo. Storie di una emozione, di Max Franti, in via di pubblicazione.

Si vive solo due volte…

Ho comprato questo libro attratto dalla copertina. Adelphi continua a regalarci – si fa per dire – edizioni di rara bellezza, e questa collana tutta nera non smentisce la qualità grafica della casa editrice. Solo in un secondo momento ho scoperto che si trattava di un romanzo di Ian Fleming, con un’avventura di James Bond. Non avevo mai letto nulla di Bond: l’ho fatto adesso.

Durante la lettura riaffioravano alla mente immagini di Sean Connery e Roger Moore, anche se non ero sicuro di ricordare bene: in realtà ho visto pochi film della saga, almeno fino all’arrivo di Daniel Craig. A colpirmi, più che l’intreccio, è stata la ricchezza dei riferimenti alla cultura giapponese e al contesto internazionale dei primi anni Sessanta. Anche nella traduzione italiana si percepisce la qualità della scrittura: descrizioni precise, dialoghi scattanti, dettagli ben calibrati. Fleming, come osserva Umberto Eco, “è più colto di quanto lasci intendere”.

Su Bond si potrebbe discutere a lungo. Prima di leggere Fleming, avevo assorbito l’idea – soprattutto dalle riflessioni di Eco e da qualche film visto qua e là – che Bond fosse una figura piatta, psicologicamente inesistente. Invece, almeno in questo volume, qualcosa affiora: un accenno di complessità, una vibrazione più umana. Credo che questo abbia offerto poi la possibilità di rendere più spessa, umana, complessa la sua figura con l’arrivo di Daniel Craig e i registi che l’hanno diretto.

Di tutto il libro però mi è rimasta l’epigrafe, un haiku inventato da Bond nello stile di Bashō: un modo molto azzeccato di rendere conto di una verità:

“Si vive solo due volte:

una volta quando si nasce

e una volta quando si guarda la morte in faccia.”

Infine, giusto per divertimento, constato come in questo romanzo la donna del cattivo sia descritta come “molto brutta”. Di solito, le donne dei cattivi sono molto belle, appariscenti, iperfemminili. Al limite non sono molto sveglie (stanno con l’uomo sbagliato!). Qui invece Fleming non si piega allo stereotipo e descrive come brutta, quasi mostruosa, la donna del cattivo Blofeld. Ci sarebbe da approfondire.

Se vuoi vedere il libro può andare qui