L’imbarazzo, frammenti sparsi

Esistono poi relazioni imbarazzanti o relazioni dove l’imbarazzo è l’emozione prevalente. Relazioni fonte di tanti imbarazzi, crogiolo di epiche, memorabili, brutte figure. In particolare: la relazione amorosa. Perché proprio l’amore genera così tanti imbarazzi? Perché la relazione amorosa si confronta con il giudizio. Quando siamo innamorati, siamo esposti. Siamo nudi. E non solo in senso poetico o erotico. Nella relazione amorosa, mettiamo in gioco la parte più vulnerabile di noi stessi: il desiderio di essere visti, accettati, amati, nonostante tutto. L’amore ci mette di fronte a una sfida esistenziale: essere autentici, pur sapendo che potremmo non piacere così come siamo. In fondo, l’amore è il grande palcoscenico dell’imbarazzo umano. Ma forse è proprio questo il suo fascino: l’amore ci obbliga ad essere ridicoli, impacciati, veri. Ci obbliga all’imbarazzo. La relazione amorosa ci espone, ci spoglia, ci restituisce alla nostra umanità più tenera e fragile. La relazione amorosa è il luogo dove si gioca il massimo sforzo di abrogazione del giudizio su di sé e sull’altro. La partita dell’amore si gioca sul terreno dell’imbarazzo, contro il giudizio. 


Tratto da L’imbarazzo. Storie di una emozione, di Max Franti, in via di pubblicazione.

Francis Bacon o del dolore che dà il potere

Francis Bacon trovò in The Painter on the Road to Tarascon (1888) di Vincent van Gogh non solo un’immagine, ma una visione potente, che definì come un «phantom of the road» (“fantasma della strada”)  . Il dipinto originale, purtroppo distrutto durante la Seconda Guerra Mondiale, giunse a Bacon attraverso una riproduzione a colori, probabilmente un frontespizio di un volume della Phaidon del 1936. Tra il 1956 e il 1957, Bacon realizzò una serie di dipinti ispirati a quel Van Gogh perduto — almeno nove grandi opere secondo gli studi più recenti . In queste variazioni, Bacon intensificò i colori, accostando pennellate energiche e dense, ispirate tanto a Van Gogh quanto a Chaïm Soutine. Studi come Study for Portrait of Van Gogh IV mostrano un paesaggio incline verso l’alto e figure isolate, immerse in ombre opprimenti, che amplificano il senso di isolamento e angoscia.

La critica contemporanea ha osservato nei dipinti di Bacon non solo l’eco del gesto gestuale e del colore incendiario di Van Gogh, ma anche una riflessione sulle fragilità emotive dell’artista, un’identificazione speculare tra due figure tormentate dalla solitudine e dall’incomprensione  .

Però il quadro che mi rimase più impresso di Bacon è questo qui. Non credo che in pittura ci sia un modo più forte di rappresentare il dolore, l’angoscia, la solitudine del potere, la distorsione che il potere genera nelle persone.

David Foenkinos, invito alla lettura

C’è un altro filone di romanzi che cerco costantemente: quelli che introducono del romanzo qualcosa che ha a che fare con lo scrivere romanzi. La famiglia Martin, di David Foenkinos, è un esempio perfetto: la storia comincia quando l’autore decide di entrare per davvero in una famiglia qualunque, facendone i protagonisti di un libro che si sta scrivendo davanti ai nostri occhi.

David Foenkinos scrive con una leggerezza, semplicità, costante ironia. È una voce chiara e riconoscibile. Le sue storie sembrano iniziare per caso, come incontri imprevisti o piccoli dettagli quotidiani, ma presto si aprono a riflessioni più ampie, spesso con un tono ironico e malinconico insieme.
Non che siano saggi filosofici, sembrano piuttosto orientati al filone de “la-bellezza-della-vita-è-nelle-cose-quotidiane”.

Un altro gustosissimo romanzo è Numero due. Dove si racconta la storia del bambino che avrebbe potuto essere Harry Potter al posto di Daniel Radcliffe. Nel 1999, quando si tennero i provini per il film, migliaia di ragazzi si presentarono. Uno arrivò in finale, ma fu scartato all’ultimo. Foenkinos immagina la sua vita: cosa significa crescere sapendo di aver mancato, per un soffio, l’occasione che avrebbe cambiato tutto? Ne viene fuori un romanzo tenero e crudele insieme, che parla di destino, fallimento, successo e delle traiettorie imprevedibili che segnano un’esistenza. È poi è un bell’esempio di sì fiction, ovvero una storia finta (credo) che però usa persone reali per essere raccontata.

Insomma, due piccoli esempi – ma anche Il mistero di Henry Pick merita assai – di come leggere Foenkinos possa essere un’esperienza letteraria particolare e intrigante.

Elogio per Adamsberg

A margine de La trilogia Adamsberg: L’uomo dei cerchi azzurri-L’uomo a rovescio-Parti in fretta e non tornare 

Adamsberg è un poliziotto inventato da Fred Vargas, alias di Frédérique Audoin-Rouzeau, un’archeozoologa e storica francese, nata nel 1957. È un poliziotto sui generis, forse l’antitesi di Sherlock Holmes. Svagato, poco attento, poco disciplinato, non particolare. Risolve i casi più con l’intuizione che con la logica. Roba da far rabbrividire un amante dei polar serio. Ma non si legge Vargas per il polar. Si legge Vargas per entrare nelle atmosfere rarefatte e quasi magiche di questo universo fatto di bruma e tanti dettagli. Si legge Vargas perché questa è letteratura, bellezza, altro che giallo. Adamsberg mi ricorda Wallander, l’altro poliziotto dolente inventato da Henning Mankel, svedese. Un modo di creare poliziotti e polizieschi che trascende il genere, lo amplia, lo articola e lo rende più profondo. Baricco, che se ne intende, riconosce in lei “strepitosa qualità della scrittura”, frasi ben calibrate, dialoghi impeccabili, aggettivi scelti con cura, ritmo elegante e un’elegante ironia narrativa. Parla anche di Adamsberg come di un personaggio la cui arte sta nel creare “parentesi di nulla” nella vita quotidiana, momenti sospesi in cui la trama inevitabilmente rallenta per lasciare spazio all’intuizione e alla incertezza . Ecco, se Joel Dicker è la Formula 1 del poliziesco, Vargas è il suo Cammino di Santiago. Inutile dire che il primo è noioso proprio come una gara di formula 1, la seconda è quasi un percorso di crescita spirituale.

P.s. Ancora meglio la seconda trilogia di Adamsberg. Da non perdere.