La vie heureuse, di David Foenkinos

Noi tutti, a un certo momento della nostra esistenza, vogliamo essere un altro. C’è un grande desiderio di morire e rinascere», scrive David Foenkinos

La vie heureuse di David Foenkinos è il suo ultimo romanzo (2025, Gallimard) che si muove sul confine tra il quotidiano e l’assurdo, tra il desiderio di vivere e la tentazione di sparire. Il protagonista, Éric, è un uomo che sebbene realizzato appare ultimamente piuttosto spento. Divorziato per assenza di stimoli, un lavoro dove eccelle ma che non lo entusiasma più, un figlio che vede poco e che lo considera ancora meno. Ad un certo punto, in un viaggio di lavora in Corea, sparisce dai radar della collega che lo aspetta invano. Cosa succede? Dov’è finito? Perché sparisce così?

Foenkinos, con la sua scrittura limpida e ironica, affronta un tema universale: il bisogno di cambiare vita, di essere, almeno per un attimo qualcun altro. Ma affronta anche un altro tema, più indirettamente: quello di dare un senso appropriato alla propria esistenza. Nella ricerca di essere un’altra persona, va aggiunto anche il bisogno di senso, che ad un certo punto preme di più. Eccellere, diventare bravi, apprezzati, vincere qualcosa, non basta più. La narrazione alterna momenti di malinconia a lampi di comicità, riflessioni profonde a scene di disarmante semplicità. Foenkinos conferma la sua abilità nel far convivere ironia e introspezione, ma sceglie volutamente di non costruire personaggi eroici o memorabili: sono figure fragili, specchi di una condizione diffusa, dove la ricerca di senso è più importante della trama. Un libro che ho letto in viaggio, dall’aeroporto a casa e che in pochi giorni s’è consumato, con leggerezza, acume e ironia, tratti tipici della scrittura di Foenkinos. Forse un grande artigiano del romanzo, forse uno scrittore notevole. Non ho ancora deciso. Ancora qualche romanzo.

David Foenkinos, invito alla lettura

C’è un altro filone di romanzi che cerco costantemente: quelli che introducono del romanzo qualcosa che ha a che fare con lo scrivere romanzi. La famiglia Martin, di David Foenkinos, è un esempio perfetto: la storia comincia quando l’autore decide di entrare per davvero in una famiglia qualunque, facendone i protagonisti di un libro che si sta scrivendo davanti ai nostri occhi.

David Foenkinos scrive con una leggerezza, semplicità, costante ironia. È una voce chiara e riconoscibile. Le sue storie sembrano iniziare per caso, come incontri imprevisti o piccoli dettagli quotidiani, ma presto si aprono a riflessioni più ampie, spesso con un tono ironico e malinconico insieme.
Non che siano saggi filosofici, sembrano piuttosto orientati al filone de “la-bellezza-della-vita-è-nelle-cose-quotidiane”.

Un altro gustosissimo romanzo è Numero due. Dove si racconta la storia del bambino che avrebbe potuto essere Harry Potter al posto di Daniel Radcliffe. Nel 1999, quando si tennero i provini per il film, migliaia di ragazzi si presentarono. Uno arrivò in finale, ma fu scartato all’ultimo. Foenkinos immagina la sua vita: cosa significa crescere sapendo di aver mancato, per un soffio, l’occasione che avrebbe cambiato tutto? Ne viene fuori un romanzo tenero e crudele insieme, che parla di destino, fallimento, successo e delle traiettorie imprevedibili che segnano un’esistenza. È poi è un bell’esempio di sì fiction, ovvero una storia finta (credo) che però usa persone reali per essere raccontata.

Insomma, due piccoli esempi – ma anche Il mistero di Henry Pick merita assai – di come leggere Foenkinos possa essere un’esperienza letteraria particolare e intrigante.

Elogio per Adamsberg

A margine de La trilogia Adamsberg: L’uomo dei cerchi azzurri-L’uomo a rovescio-Parti in fretta e non tornare 

Adamsberg è un poliziotto inventato da Fred Vargas, alias di Frédérique Audoin-Rouzeau, un’archeozoologa e storica francese, nata nel 1957. È un poliziotto sui generis, forse l’antitesi di Sherlock Holmes. Svagato, poco attento, poco disciplinato, non particolare. Risolve i casi più con l’intuizione che con la logica. Roba da far rabbrividire un amante dei polar serio. Ma non si legge Vargas per il polar. Si legge Vargas per entrare nelle atmosfere rarefatte e quasi magiche di questo universo fatto di bruma e tanti dettagli. Si legge Vargas perché questa è letteratura, bellezza, altro che giallo. Adamsberg mi ricorda Wallander, l’altro poliziotto dolente inventato da Henning Mankel, svedese. Un modo di creare poliziotti e polizieschi che trascende il genere, lo amplia, lo articola e lo rende più profondo. Baricco, che se ne intende, riconosce in lei “strepitosa qualità della scrittura”, frasi ben calibrate, dialoghi impeccabili, aggettivi scelti con cura, ritmo elegante e un’elegante ironia narrativa. Parla anche di Adamsberg come di un personaggio la cui arte sta nel creare “parentesi di nulla” nella vita quotidiana, momenti sospesi in cui la trama inevitabilmente rallenta per lasciare spazio all’intuizione e alla incertezza . Ecco, se Joel Dicker è la Formula 1 del poliziesco, Vargas è il suo Cammino di Santiago. Inutile dire che il primo è noioso proprio come una gara di formula 1, la seconda è quasi un percorso di crescita spirituale.

P.s. Ancora meglio la seconda trilogia di Adamsberg. Da non perdere.

Michele Mari, obbligo di lettura

Se in Italia c’è uno scrittore con la S maiuscola, uno di quelli che quando leggi, non pensi “beh questo lo posso fare anche io”, ma bensì “forse è meglio che investa più tempo nell’arte nobile del giardinaggio” questi è Michele Mari. Ho letto per ora tre sue cose: Rosso Floyd, Rodderick Duddle, Cento poesie d’amore a Ladyhawke. Ho iniziato e non ho finito altri tre sui libri, ma più per motivi miei che suoi. Comunque. A me bastano quei tre per dire che se uno cerca, come io cerco, cose particolari, trasversali, inclassificabili, beh, Mari offre molte risorse.

Rosso Floyd non è una biografia dei Pink Floyd, e nemmeno un romanzo nel senso tradizionale. È un coro di voci: musicisti, mogli, tecnici, amici, giornalisti, tutti parlano, ricordano, raccontano brandelli di vita e di musica. Il risultato è un mosaico che restituisce la grandezza e le ferite di una band che ha segnato un’epoca. Quello che mi ha colpito è l’intensità della scrittura di Mari: ogni voce sembra vera, ogni frammento diventa parte di un’unica polifonia che è letteraria prima ancora che musicale. È un libro che non si limita a “raccontare i Pink Floyd”: li reinventa, li trasforma e ce li restituisce in modo del tutto personale.

Darò conto di altre letture di suoi testi. Senza dubbio.

Non tutto il bene viene per…

C’è un detto equivalente, al positivo, di non tutto il male viene per nuocere? Non sempre il bene fa bene, e il libro di Bacà parte da questo presupposto. Ho chiesto a ChatGPT di preparare una recensione per questo libro di Fabio Bacà, ma almeno nelle tre versioni che ho provato a farle fare, diceva cose inappropriate. Un libro difficile da catalogare? Scritto in modo molto particolare, unico, direi, a volte molto contorto, ma sempre divertente, brillante, ironico, è un libro che parte dalla situazione per cui un inglese (perché un inglese? Perché è ambientato a Londra?) ad un certo punto avverte di avere la fortuna dalla sua parte in un modo statisticamente (e lui è uno statistico) inaccettabile. E la cosa gli pare comunque inaccettabile: perché tanta fortuna? E già? Se le cose girano tutte bene c’è qualcosa che non va… E cosa succede allora? Pur non essendo minimamente un thriller tiene avvinghiato il lettore che vuol capire cosa sta accadendo e dove si andrà a parare. In che modo si ristabilirà l’equilibrio? Perché comunque occorre trovare un equilibrio. È pur sempre una questione statistica. Il finale mi ha molto sorpreso.

La scienza come romanzo…

Da sempre mi attirano i libri che non sanno stare dentro un confine di genere, soprattutto tra narrativa e saggio. Forse perché anche io, scrivendo Dissoluzioni, mi sono nutrito di testi così: penso a HHhH di Laurent Binet (di cui ho già scritto qui), a L’avversario e a gran parte dell’opera di Emmanuel Carrère, ma anche a Sebald, a Ernaux e ad altri ancora. Sono libri che raccontano cose reali con gli strumenti della finzione, o che inventano per spiegare meglio ciò che è realmente accaduto.

Il libro di Benjamin Labatut, Quando abbiamo smesso di comprendere il mondo, appartiene pienamente a questa categoria di oggetti ibridi, e lo fa con un’intensità particolare. Parla di scienza, di scoperte, di riflessioni matematiche e fisiche, ma lo fa in una forma che destabilizza: non sai mai fino in fondo se ciò che leggi sia reale, ispirato al reale o completamente inventato. Eppure funziona, ed è proprio questo continuo slittamento a renderlo affascinante e intrigante.

Quello che mi conquista è la possibilità di leggere biografie e teorie matematiche come fossero parabole, racconti mitici, metafore della condizione umana. Non è la trama a trascinarmi, ma l’oscillazione costante tra sapere e immaginazione, tra cronaca e invenzione.

Labatut, giovane scrittore cileno, mostra come oggi non si debba (o forse non si possa più) scegliere un unico registro: la scrittura può essere insieme invenzione, documento, riflessione critica e poesia. Certo, in questo processo i confini della realtà si sfaldano, come accade in Dissoluzioni: la verità, l’autenticità, la coerenza morale vengono messe in discussione. Ma proprio da questa frattura nascono possibilità nuove, letterarie e conoscitive, per affrontare la complessità del mondo.

Puoi trovare il libro qui

Si vive solo due volte…

Ho comprato questo libro attratto dalla copertina. Adelphi continua a regalarci – si fa per dire – edizioni di rara bellezza, e questa collana tutta nera non smentisce la qualità grafica della casa editrice. Solo in un secondo momento ho scoperto che si trattava di un romanzo di Ian Fleming, con un’avventura di James Bond. Non avevo mai letto nulla di Bond: l’ho fatto adesso.

Durante la lettura riaffioravano alla mente immagini di Sean Connery e Roger Moore, anche se non ero sicuro di ricordare bene: in realtà ho visto pochi film della saga, almeno fino all’arrivo di Daniel Craig. A colpirmi, più che l’intreccio, è stata la ricchezza dei riferimenti alla cultura giapponese e al contesto internazionale dei primi anni Sessanta. Anche nella traduzione italiana si percepisce la qualità della scrittura: descrizioni precise, dialoghi scattanti, dettagli ben calibrati. Fleming, come osserva Umberto Eco, “è più colto di quanto lasci intendere”.

Su Bond si potrebbe discutere a lungo. Prima di leggere Fleming, avevo assorbito l’idea – soprattutto dalle riflessioni di Eco e da qualche film visto qua e là – che Bond fosse una figura piatta, psicologicamente inesistente. Invece, almeno in questo volume, qualcosa affiora: un accenno di complessità, una vibrazione più umana. Credo che questo abbia offerto poi la possibilità di rendere più spessa, umana, complessa la sua figura con l’arrivo di Daniel Craig e i registi che l’hanno diretto.

Di tutto il libro però mi è rimasta l’epigrafe, un haiku inventato da Bond nello stile di Bashō: un modo molto azzeccato di rendere conto di una verità:

“Si vive solo due volte:

una volta quando si nasce

e una volta quando si guarda la morte in faccia.”

Infine, giusto per divertimento, constato come in questo romanzo la donna del cattivo sia descritta come “molto brutta”. Di solito, le donne dei cattivi sono molto belle, appariscenti, iperfemminili. Al limite non sono molto sveglie (stanno con l’uomo sbagliato!). Qui invece Fleming non si piega allo stereotipo e descrive come brutta, quasi mostruosa, la donna del cattivo Blofeld. Ci sarebbe da approfondire.

Se vuoi vedere il libro può andare qui


Ritorno a casa…

Il leopardo di ghiaccio non è solo un diario di esplorazione in Kenya e Ruanda. È un’immersione silenziosa in un mondo dove la natura parla un linguaggio antico, che non abbiamo mai smesso davvero di capire. Aaron Latham segue le orme della zoologa Dian Fossey, i gorilla tra le nebbie, le leggende africane. S’immerge in storie e culture diverse in quel luogo speciale che è la Valle del Rift da dove forse tutti noi veniamo. Ed è questa la vera esplorazione: perché si prova qualcosa di speciale in quel posto? La risposta che affiora è questa: la memoria genetica. Latham scrive come se ci fosse qualcosa nel nostro sangue – nei nostri sensi, nei nostri sogni – che riconosce quei luoghi prima ancora di averli visti. Come se, nonostante i secoli, i chilometri, le culture, fossimo sempre rimasti lì, senza mai andarcene veramente, figli della savana, orfani del rumore del vento tra le foglie larghe, dei suoni gutturali degli animali notturni, delle tracce nella terra rossa.

Il libro si muove su due piani: la narrazione del viaggio reale, con la famiglia e le loro peripezie e la riflessione costante che l’autore fa su se stesso e il confronto con ciò che sta vivendo, immerso com’è, in una natura che lo sovrasta.

Propizio è avere ove recarsi, di Emmanuel Carrère

Non so come sia possibile che io non abbia quasi mai recensito un libro di Emmanuel Carrère, uno dei miei autore preferiti.

Chiaramente, ho letto quasi tutto di lui… E così sto rileggendo. Questi giorni, cercando l’ispirazione per la forma di un nuovo libro, sto rileggendo la sua opera. Adesso sto rileggendo Il Regno, racconto del periodo cattolico di Carrère e anche biografia semi inventata di Luca. Ma intanto ho finito questa raccolta di saggi. Si tratta di una raccolta di reportage, interventi, saggi scritti tra il 1990 e il 2015. Alcuni mostrano il loro limite temporale, altri meno. Il titolo, tratto dall’I Ching, suggerisce un orientamento favorevole quando la vita offre molte strade – ed è esattamente ciò che il libro offre: molte strade, molte storie, una prospettiva, la sua. Carrère parla di Romania post‑Ceaușescu, di tribunali francesi, di casi umani al limite del sopportabile, della Russia di Putin, del mondo assurdo del Forum di Davos e della sua ricerca dell’“uomo dei dadi” – uno che decideva ttutto nella propria vita lanciando dadi. Ogni viaggio diventa occasione di riflessione sul proprio lavoro, sull’etica del narratore e sul confine tra racconto e vita. La scrittura è nitida, levigata, ironica: uno stile limpido e ritmato che incanta e tiene avvinghiati alle pagine, anche quando l’io narrante – ego centrale e trasparente – costituisce l’oggetto di osservazione più vivido. Il rischio è che, dopo un po’, la sua presenza diventi ingombrante. Allora viene la voglia di dire all’autore quello che Mario Monicelli diceva a Nanni Moretti nei suoi film: “Scanzate, famme vedè il film!”. È un rischio che si corre spesso quando si parla di sé nei propri libri. È un rischio che Carrère ama correre e è comunque bello vederglielo vivere.

George Foreman sarà sempre con noi

Venerdì 21 marzo 2025 muore George Foreman. La storia di George Foreman è un potente esempio di resilienza, redenzione e reinvenzione. Il modo in cui ha elaborato la sconfitta terribile di quel 30 ottobre ’74 contro Muhammad Ali, il suo incredibile ritorno al pugilato e la riconquista del titolo mondiale all’età di 46 anni hanno sfidato le convenzioni e ispirato milioni di persone, dimostrando che l’età non è un limite per raggiungere grandi traguardi. Oltre al pugilato, Foreman è stato un grande imprenditore con la George Foreman Grill, diventando un’icona culturale al di là del mondo dello sport. Il suo impegno come filantropo attraverso il suo centro giovanile testimonia la sua evoluzione da combattente aggressivo a uomo di pace e di comunità. La sua storia, dal ruggito della giungla al tuono del campione anziano, è un esempio duraturo della forza dello spirito umano capace di superare le sconfitte, fare fronte ad ogni avversità e di sapersi reinventare. La sua eredità continua a vivere, non solo nei record sportivi e negli affari di successo, ma nel cuore di chiunque voglia riscattarsi o abbia mai osato sognare una seconda possibilità. George Foreman ci ricorda che la vera vittoria non è conquistare un titolo, ma trasformare la propria vita, grazie anche alla sconfitta e alla caduta nell’abisso, in un’opera d’arte di altruismo e speranza.

La complessità

William Turner, 1842, La tempesta di neve. Battello a vapore a largo di Harbour Mouth.

Turner è un altro di quei pittori che ho sempre amato. E mi rendo conto che quando esco dal Novecento e vago per altre epoche, poi ciò che porto a casa è sempre un quadro del Novecento. Questa immagine la userò come copertina di un prossimo libro sulla complessità della comunicazione umana. Perché per me questo quadro rende conto delle relazioni umane, più che di un battello in balia di una tempesta di neve. O, forse, quella è lo nostra condizione perenne.

Una tregua sottile, poesie di Michele di Tonno (2024)

Se fossero disegni sarebbero quei bozzetti che i pittori preparavano prima del quadro grande. Bozzetti finiti, perfetti, che racchiudevano in essi una parte essenziale o strategica del quadro. Così le poesie di Michele: brevi, dense, teneramente fulminanti. “Una poesia di relazione” ha detto l’autore ad una presentazione. Poesie dove è presente sempre qualcun altro, la figlia, la moglie, amici, persone. Una poesia dove le emozioni, le sensazioni legate alle relazioni sono presenti, in modo delicato, discreto, come a non voler disturbare. In questo sito ho già pubblicato sue poesie, poiché ho avuto il privilegio di veder nascere il Michele poeta dopo averlo visto splendere come pittore. Michele è un artista perché ha personalità, consapevolezza – lui direbbe limitata, io direi quanto basta, come nelle buone ricette -dei propri mezzi, di ciò che per lui è importante e ciò che non lo è. Soprattutto Michele ha una voce, uno stile. Le sue poesie non imitano nessuno, sono sue. Provare per credere. https://amzn.eu/d/emTXnq9

Anche i romanzi parlano

Il motivo per cui ho acquistato e letto questo libro è che ho capito che anche il romanzo, in esso, aveva una voce. Credo sia la prima volta, almeno per me, che incontro un romanzo – tratto pare da una storia vera, ma non ho controllato – nel quale il romanzo stesso, come oggetto, ha una sua propria voce, interviene, commenta, avverte. In questo periodo m’interessano quegli oggetti-romanzi-saggi-non si capisce bene cosa siano- che non appartengono a dalle categorie affermate, o ne incrociano molte. Visto come ho scritto su Van Gogh, si dovrebbe capire perché. Cerco complici.

Per il resto, il romanzo breve di Aramburu, nonostante la drammaticità di ciò che racconta, conserva una sua leggerenza felice, un modo di raccontare semplice, con diverse voci – tra cui quella del romanzo stesso – che si alternano a costruire un momento particolare della vita di una famiglia e anche di una comunità. Non è consigliato per chi è sensibile ai lutti. Io stesso non lo avrei letto se non fosse per questa invenzione letteraria che mi ha incuriosito. Da capire il finale.

Lettere a Theo, un epistolario eccezionale

La raccolta (parziale) delle lettere che Vincent ha inviato a Theo negli anni è un documento eccezionale per comprendere non solo il senso della pittura di Van Gogh, ma la sua straordinaria personalità, troppo in anticipo sui tempi per il suo secolo, troppo legata ai suoi tempi per dove stava andando la pittura. Van Gogh non è stato solo un grande pittore, ma soprattutto una grande persona e, cosa che forse non si è detta abbastanza, un grande scrittore.

Se la vita non ha preso il sopravvento su di voi, forse avete modo di leggere, di tanto in tanto, le lettere di Vincent, quasi 900, in originale (con traduzioni), sul sito che le mette a disposizione di tutti.

Dissoluzioni, di Max Franti

In uscita… dopo molti anni, con la mia casa editrice, tra qualche settimana…


Un saggio narrativo, memoir e indagine sulla dissoluzione della verità e del senso, attraverso la storia di Vincent Van Gogh e il dramma personale di una coppia che affronta la malattia del personaggio chiamato “moglie”.

Come, e soprattutto, perché Vincent Van Gogh è morto? Cosa è successo quel 27 luglio 1890, ad Auvers, una domenica calda e assolata? Se negli ultimi anni il come è stato via via chiarito, resta un mistero il perché Van Gogh si sia lasciato morire (e sia stato lasciato morire).  Max Franti intraprende una ricerca travagliata e ossessiva, durata anni, trovando tracce mai considerate prima, ricomponendo un puzzle tanto più intricato quanto più, imprevedibilmente, le vicende del pittore olandese si sono legate sempre più a quelle della moglie e alle sue. 

I miei 50 libri…

Il mio grande rammarico, morendo, sarà non aver letto abbastanza. I libri importanti per me sono più di 50, ma la vita s’illumina alla luce delle scelte che si fanno. Sono le scelte che testimoniano chi siamo. (L’ordine è casuale)

Fuori lista il primo libro che ricordo di aver letto: Dal Tamigi alle Amazzoni, di Attilio Rovinelli.

Cent’anni di solitudine, di Gabriel Garcia Marquez

Come salvarsi la vita, di Erica Jong

Il Tao della fisica, di Fritjof Capra

L’uomo senza qualità, di Robert Musil

Finzioni, di Jorge Luis Borges

Il libro del riso e dell’oblio, di Milan Kundera

Tanto amore per Glenda, di Julio Cortazar

Siddhartha, di Herman Hesse

L’albero della conoscenza, di Humberto Maturana e Francisco Varela

La realtà della realtà, di Paul Watzlawick

Tutte le poesie, di Giorgio Caproni

Il superuomo di massa, di Umberto Eco

Le città invisibili, di Italo Calvino

Contro il metodo, di Paul Feyerabend

Credere per vedere, di Wayne Dyer

XY L’identità maschile, di Elisabeth Badinter

Il gioco e il massacro, di Ennio Flaiano

Pensieri spettinati, di Stanislaw Lec

Detti e contraddetti, di Karl Kraus

Le nozze di Cadmo e Armonia, di Roberto Calasso

Gente sul ponte, di Wislawa Szymborska

La nausea, di Jean Paul Sartre

Lavorare stanca, di Cesare Pavese

Vita, istruzioni per l’uso, di George Perec

Odile,  di Raimond Queneau

Fuochi, di Margherite Yourcenar

Illusioni, di Richard Bach

L’arte di amare, di Erich Fromm

L’amore ai tempi del colera, di Gabriel Garcia Marquez

Bouvard e Pecuchet, di Gustave Flaubert

Frammenti di un discorso amoroso, di Roland Barthes

Emmaus, di Alessandro Baricco

Cristo si è fermato ad Eboli, di Carlo Levi

La cognizione del dolore, di Carlo Emilio Gadda

La metamorfosi, di Franz Kafka

Del senso, di Algirdas Julien Greimas

Autobiografia, di Charles Darwin

La vigna del testo, di Ivan Illich

Chiaro di donna, di Roman Gary 

Le trasformazioni dell’intimità, di Antony Giddens

Armi, acciaio e malattie, di Jared Diamond

Per un’ecologia della mente, di Gregory Bateson

Geografia infruttuosa, di Pablo Neruda

Semiotica, comunicazione e marketing, di Jean Marie Floch

Un altro giro di giostra, di Tiziano Terzani

I malavoglia, di Giovanni Verga

La galassia Gutenberg, di Marshall McLuhan

Antologia di Spoon River, di Edgar Lee Masters

Il libro della sovversione non sospetta, di Edmond Jabes

HHhH. Il cervello di Himmler si chiama Heydrich, di Laurent Binet

Devo molto anche alla consultazione dei seguenti libri scolastici:

Il materiale e l’immaginario, Antologia di Letteratura, a cura di Remo Ceserani e Lidia de Federicis.
Vocabolario della lingua italiana, di Giacomo Devoto e Gian Carlo Oli.
Dizionario etimologico, di Giacomo Devoto.
Filosofie e società, Antologia filosofica di Alessio, Vegetti, Fabietti, Papi.
Storia e storiografia, a cura di Antonio Desideri.
I miti greci, di Robert Graves.








Un lungo piano sequenza…

Arriva sempre un momento, nella vita di ognuno di noi, credo, in cui si tratta di leggere qualcosa di Simenon. Questo è il suo romanzo più breve e racconta la storia (sembra un lungo piano sequenza) del professor Jean Chabot, un ginecologo di successo, dalla vita apparentemente tranquilla e agiata. Ma ben presto capiamo che il professore coltiva un’insoddisfazione profonda. Senza capire bene perché, cosa c’è che non va nella sua vita, è sempre più stanco e sempre più lontano da tutti, da sua moglie, dai figli, dai parenti, dai pazienti. Fa i conti con la vecchiaia, con l’incubo di non poter più esercitare la sua professione e nella sua memoria ritorna una specie di senso di colpa, qualcosa che ha a che fare con una giovane inserviente della clinica, che lui soprannomina “l’orsacchiotto” per la sua tenerezza e ingenuità. La scrittura di Simenon è asciutta, scorrevole, precisa, direi “professionale”. Il racconto arriva alla fine senza che uno se ne accorga. E la fine non è ciò che ci si aspetta.

Salvador Allende, il Cile e il Museo dei Suicidi

“Indagine su un colpo di stato” di Ariel Dorfman è un’opera intensa e complessa. Il romanzo, sotto la veste di un giallo che indaga sulla morte di Salvador Allende, si trasforma in un’analisi profonda dell’anima di un paese ferito e di un uomo lacerato dal senso di colpa. Dorfman intreccia magistralmente la storia personale di Ariel, lo scrittore esiliato, con la storia collettiva del Cile, creando un affresco vivido e doloroso. Inoltre, attraversa il romanzo un personaggio particolare che sta creando un museo dedicato ai suicidi, il cui scopo è quello di aiutare l’umanità a capire che si sta suicidando (il titolo originale, in inglese, è infatti: Il museo dei suicidi).

“Indagine su un colpo di stato” è un romanzo che va oltre il genere del giallo storico, offrendo una riflessione profonda e toccante sulle ferite di un paese e di un uomo.

Ariel Dorfman, Indagine su un colpo di stato, Guanda, 2023.